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Channel: Architettura Ecosostenibile: bioarchitettura, design e sostenibilità
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La canna palustre nell'architettura vernacolare

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Messa a punto dalle popolazioni delle zone paludose del sud e dell’est dell’Iraq, un’espressione affascinante di architettura vernacolare araba trae origine dalla tradizione costruttiva dei popoli che abitano le aree umide del Tigri e dell’Eufrate, detti Arab al-Ahwar ovvero “arabi delle paludi”. Si tratta di costruzioni che sfruttano la caratteristica deformabilità sotto carico della canna palustre e la conseguente possibilità di farle assumere una configurazione ad arco: così, lo spazio chiuso abitabile si origina infiggendo nel terreno fasci di vegetale palustre, poi curvati e bloccati a coppie con legature per realizzare gli archi trasversali, il tutto perimetrato e chiuso con stuoie.

La canna palustre nell'architettura italiana: i casoni rurali

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La canna palustre e il mudhif

Nella tradizione locale la tecnica che impiega fasci di canne con funzione portanteè stata applicata alla costruzione di grandi edifici collettivi chiamati Mudhif, utilizzati come luoghi di ritrovo per matrimoni e funerali e fatti costruire dagli sceicchi. Le canne più larghe sono legate insieme a formare colonne, curvate e legate a dar forma ad archi, che si susseguono tra di loro originando la struttura portante. Lunghi fasci di canne più piccole sono invece posizionati longitudinalmente tra gli archi e legati a formare l’involucro della costruzione. Stuoie con trame particolari che lasciano piccoli fori per la ventilazione e l’illuminazione, chiudono, avvolgendolo, l’intero manufatto. Le due pareti anteriore e posteriore, legate a due grandi colonne verticali in canne intrecciate, sono interrotte dalle uniche due aperture utili per l’accesso al mudhif. 

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La stessa tipologia strutturale del mudhif è applicata a scala ridotta alle abitazioni di interi villaggi, anch’esse formate da fasci di canne conficcati in una base di canne e fango. Il modulo, con dimensioni che si aggirano attorno ai 2 metri di larghezza, 6 metri di lunghezza e 3 metri di altezza, è spesso diviso in due parti di cui una destinata ad abitazione e l’altra a ricovero del bestiame.

Le isole artificiali: kibasha e dibin

Il vantaggio di queste tipiche case di canne è la facile trasportabilità: in primavera infatti, quando il livello dell’acqua della palude cresce, tutta la struttura può essere facilmente smantellata, trasportata su un terreno più idoneo e rimontata in meno di una giornata. Tali strutture, che possono durare anche 25 anni, sorgono sulla riva delle paludi, o su isole artificiali di sole canne chiamate kibasha, o ancora su isole di canne e fango, distribuiti a strati alternati, chiamate dibin: gli uomini del posto costruiscono recinzioni in canne, pompano via l’acqua dall’interno dello spazio perimetrato riempendolo con canne, fango e paglia. Le isole artificiali così costituite possono durare per molti anni, a condizione che siano sottoposte ad un’accurata manutenzione, dovendo essere costantemente rinforzate per impedire che il terreno frani nell’acqua.

Si tratta di vere e proprie espressioni architettonico-costruttive in cui la canna, questo fascinoso materiale naturale dalle mille potenzialità, è usata con funzione portante e plasma interi villaggi.

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